Origini di un nome e antiche controversie
Chissà quante volte ci siamo chiesti il perché del Monte Ponteranica attribuito ai due suggestivi Laghetti di circo e variegato massiccio montuoso che si innalza con tre distinte vette tra il Valletto e il Passo del Verrobbio. L’origine del nome è collegata al comune di Ponteranica che fin dal XVI secolo era proprietario dei pascoli che si estendono alla base della montagna. Qui è attivo ancora oggi un alpeggio, denominato appunto “Ponteranica”, esteso circa 150 ettari e con la potenzialità di un’ottantina di paghe. L’alpeggio apparteneva al comune di Ponteranica (detto allora Poltranica o Poltranga o Potranga) che lo aveva acquistato dalla comunità della Valle Averara per costituirvi un pascolo estivo da assegnare agli allevatori del paese i quali vi mandavano annualmente le loro mandrie. Analogamente, il comune di Sorisole aveva acquistato l’alpeggio dei Siltri (detto anche monte Celtro, in territorio di Mezzoldo) che è ancora oggi di sua proprietà. Ogni anno, alla fine di giugno, le famiglie di Ponteranica potevano affidare, pagando determinate quote, parte del loro bestiame (solitamente mucche o pecore) a incaricati del loro comune, i quali provvedevano a portarlo ai monti, dove lo custodivano fino alla fine di agosto. Al termine della stagione si procedeva a suddividere tra i proprietari il valore del formaggio prodotto e della lana tostata, in ragione dei capi mandati in alpeggio. Si trattava di un’attività abbastanza fiorente, in quanto, come appare dal libro d’estimo della Squadra di Mezzo (l’attuale comune di Santa Brigida, sotto la cui giurisdizione rientrava l’alpeggio in questione) il comune di Ponteranica era il maggiore contribuente della Valle Averara, dovendo corrispondere, da solo, oltre un decimo di tutte le imposte locali. A parte le indicazioni del libro d’estimo, la presenza del comune di Ponteranica nel territorio di Santa Brigida è documentata da altre fonti, tra cui gli atti di una causa discussa all’inizio del Seicento davanti al vicario civile della Valle Averara, a cui competeva l’amministrazione della giustizia. Il 7 giugno 1617 il comune di Ponteranica, rappresentato dal notaio Giacomo Fenaro Guarinoni, presentò ricorso avanti il vicario contro il sequestro di 220 lire imperiali effettuato il 31 maggio precedente a suo carico, ad istanza degli uomini di Santa Brigida. Il sequestro era stato determinato dall’asserito mancato pagamento da parte di Ponteranica della quota per gli oneri e le spese comunali sostenute a partire dal 1609. Agli atti della causa, conservati nell’archivio parrocchiale di Santa Brigida, è allegato un prospetto di quattro pagine dove sono riportate tutte le spese effettuate dagli amministratori della squadra tra il 1609 e il 1615. Spese ammontanti a un totale di 1870 lire, da suddividersi tra i possidenti, in rapporto al rispettivo estimo. E per il comune di Ponteranica si trattava appunto di 220 lire che, secondo i promotori del sequestro, non erano state versate nelle pubbliche casse. Il comune di Ponteranica contestò il sequestro, ritenendolo nullo e contrario ai principi dello statuto di valle, oltre che eseguito ad istanza di persone alle quali non competeva tale azione. Sostenne inoltre di aver sempre pagato puntualmente le proprie quote e di essere comunque pronto a rifondere eventuali debiti residui. Dopo una serie di udienze, il vicario ritenne di dover coinvolgere i rettori di Bergamo, trasmettendo gli atti al capitano Lorenzo Giustiniani e al podestà Bernardo Valiero. Ma quest’ultimo, in data 6 settembre 1617, rinviò la causa al vicario, dichiarandosi incompetente a giudicare per effetto dei privilegi e dello statuto che individuavano quale unico giudice naturale, in materia civile, il vicario della Valle Averara. La controversia si risolse entro lo stesso mese di settembre. Il giorno 25 si presentarono davanti al vicario, nella sua sede della Fontana di Averara, Cristoforo Camerata e Domenico Manganoni, di Bindo, entrambi consiglieri, e per Ponteranica, oltre al notaio Giacomo Fenaro Guarinoni, Pietro Aldegani e Bartolomeo Marchetti, entrambi sindaci del comune. Nel corso dell’udienza i rappresentanti di Ponteranica accettarono di coprire il debito nei confronti di Santa Brigida, salito nel frattempo a 235 lire e il 30 settembre i delegati della Squadra di Mezzo, confermando davanti al vicario di aver ricevuto i soldi, rinunciarono formalmente al sequestro e alla prosecuzione della causa. La controversia venne così composta e da quel momento non si ha notizia di altre questioni tra le due parti. La presenza del comune di Ponteranica sui pascoli altobrembani sopravvisse fino ai mutamenti determinati nell’Ottocento dal regime austriaco, ma a Ponteranica è rimasto sempre legato il nome dell’alpeggio, dei laghetti e della montagna.
La Leggenda del Monte Avaro
Parecchi anni fa il monte apparteneva a un tale di Cusio, un Paleni o forse un Rovelli, o un altro di quegli abitanti della piccola comunità posta alla sommità della Valle Averara. Una cosa è certa: quel tale era una persona assai gretta e taccagna ed era conosciuto in tutta la valle, e anche fuori, proprio per la sua non comune avarizia, al punto che la gente aveva preso a chiamarlo “Avaro” o peggio, “Avarù” e lo segnava a dito perché faceva i salti mortali per non pagare le tasse e per giunta non sganciava mai un soldo per contribuire alle necessità della parrocchia, anzi, per paura di dover fare l’elemosina al sagrestano, si era ridotto a non andare nemmeno più in chiesa, cosa che suscitava le critiche severe del parroco e i commenti scandalizzati dei compaesani che cominciarono a non rivolgergli più la parola e ad evitarlo, costringendolo a vivere da solo come un eremita tra le sue ricchezze. L’avaro era proprietario di un alpeggio dove portava ogni anno le sua mandria, ma il pascolo era piuttosto sterile, essendo ricoperto di grossi macigni sparsi dappertutto, tanto da assomigliare quasi a una vasta pietraia in cui facevano capolino, qua e là, radi ciuffi d’erba. La gente, che conosceva lo stato non proprio florido di quel monte, ne parlava spesso, in termini non certo compassionevoli, quasi a voler sottolineare la rivincita dell’alpeggio sulla taccagneria del suo proprietario. “Chèl che s’ fa ‘l vé rendì”, esclamavano furtivamente gli altri mandriani con malcelata soddisfazione quando vedevano tornare dal monte le bestie dell’avaro, stanche e ridotte a pelle e ossa. Col passare degli anni, per analogia con l’indole del suo proprietario, i cusiesi presero a chiamare quell’alpeggio “il monte avaro”, avaro come il suo padrone. Un’estate nella quale l’erba era più scarsa del solito e le mucche avevano grossa difficoltà a nutrirsi, il mandriano fu preso dalla disperazione e una sera, seduto fuori dalla sua baita, più avvilito che mai mormorò fra sé: “Darei la mia anima al Diavolo se in cambio potessi ripulire la montagna da tutto questo pietrame”. Non aveva nemmeno finito di pronunciare queste parole che sentì un forte boato accompagnato da un terremoto. Vicino a lui si aprì un profondo cratere da cui uscì, avvolto in una densa nuvola nera, il Diavolo in persona, sotto le sembianze di un rosso caprone, tutto peloso, con le corna acuminate e la lunga coda attorcigliata, dalla punta a forma di freccia. “Ai tuoi ordini - gridò con voce cavernosa rivolto all’avaro, impietrito per lo stupore e lo spavento - dammi la tua anima e io ti ripulisco il monte così bene da farlo diventare il pascolo più bello di tutta l’alta Valle Brembana”. L’avaro, che fino a un attimo prima avrebbe accettato di scendere a patti col Diavolo, adesso, di fronte alla prospettiva di vedere concretizzato il suo sogno, fu preso dal panico. In fin dei conti la sua anima, sul punto di diventare merce di scambio per una banale questione di interesse, doveva pure avere il suo valore se il principe delle tenebre era disposto a sobbarcarsi una fatica così improba per averla. E poi si ricordò che il suo parroco, quelle poche volte che aveva avuto l’occasione di sentirlo, durante la messa o la dottrina, ripeteva sempre che l’anima è infinitamente più preziosa del corpo, vale molto di più di tutte le ricchezze terrene e per giunta è immortale: “Chi perde l’anima andrà all’Inferno, dove dovrà bruciare per tutta l’eternità!”. E adesso lui stava addirittura cedendo volontariamente la propria anima al Diavolo, per accrescere la ricchezza terrena… “Ma l’anima è importante, non voglio perderla, non voglio andare a bruciare all’Inferno…” Il suo interlocutore, vedendolo titubante, lo incalzò: “Ma va’ là, non dare ascolto a tutto quello che ti dicono.
E’ tutta una scusa inventata dai preti per carpirti i tuoi soldi e impedirti di godere appieno delle gioie della vita”. E stuzzicando la sua avidità, soggiunse: “E’ un affare da non perdere, pensa ai soldi che ne potrai ricavare, prova ad immaginare quanti anni ti ci vorrebbero per fare questo lavoro da solo, considera invece che già da questa estate tu potrai far pascolare le tue bestie su un terreno tutto dissodato e fertile”. L’uomo si voltò ad osservare il vasto pianoro disseminato di macigni e lo immaginò per un momento tutto coperto d’erba verde e di fiori, con la sua mandria intenta a pascolare al suono dei campanacci. I Questa visione fu talmente convincente che alla fine l’avaro cedette e accettò il patto col Diavolo. Però pose una condizione: “Il lavoro dovrà essere svolto questa notte e portato a termine prima che dal campanile di Cusio giungano i rintocchi dell’Ave Maria del mattino, altrimenti tu non avrai alcun diritto sulla mia anima”. Egli era infatti convinto che sarebbe stato impossibile, non dico finire, ma anche solo arrivare a metà di un lavoro così improbo, per cui, alla fine egli sarebbe rimasto con la sua anima e con il monte almeno in parte ripulito. era meglio che niente. Ma non aveva fatto i conti con l’astuzia del Diavolo che non aveva precisato in quanti sarebbero stati a svolgere questo lavoro. Così, appena furono calate le tenebre, il monte Avaro si riempì di ombre che si misero al lavoro di buona lena e in assoluto silenzio. Erano decine di diavoli tutti rossi e pelosi, colleghi di quello che aveva fatto la proposta all’avaro, dai loro occhi emanava una luce diafana che illuminava sinistramente la notte.
Tratto dal libro "Santa Brigida e l'Antica valle Averara" di Tarcisio Bottani