Storie antiche di Roncobello

Un Albero sovversivo a Baresi

Non era per nulla tranquillo, quella mattina del 21 Aprile 1794, il Sindaco di Baresi, Martino Bonetti, mentre percorreva in gran fretta le strette e ancora deserte vie di Citta' Alta per recarsi nella cancelleria podestarile a conferire direttamente col capitano e vicepodesta' Nicolo' Corner. Aveva viaggiato tutto il pomeriggio del giorno precedente lungo la non certo agevole strada della Valle Brembana ed era arrivato a Bergamo nella tarda serata, il tempo di prendere l'alloggio in una modesta locanda dove aveva trascorso una notte insonne e assai agitata. Era la prima volta che il suo ufficio di rettore del comune lo portava ad incontrarsi con il massimo rappresentante del potere veneto in terra bergamasca e la neseccita' di dar corso a tale incombenza lo aveva messo in affanno, non gia' per l'autorevolezza del personaggio, bensì per la gravita' della questione che andava a riferire, della quale rischiava addirittura di essere chiamato a rispondere per mancata vigilanza o, peggio, per connivenza. Il giorno prima era stato svegliato all'alba da un suo vicino che, uscendo di casa per recarsi alla stalla, aveva scorto, piantato in bella vista in una strada centrale del paese, un tronco d'albero piuttosto alto con la cima adornata da un ampia benda rossa e da una serie di fettucce di stoffa multicolore; completava l'addobbo un fascio di verdi rami d'alloro intrecciati. Quel tronco aveva tutta l'aria di essere quello che veniva comunemente chiamato "albero della liberta'", il simbolo delle nuove idee libertarie che avevano trionfato in Francia con la rivoluzione e si erano diffuse negli stati vicini, malgrado la severa vigilanza delle autorita' locali, arrivando a far capolino anche nella ormai decrepita repubblica veneta. Il fatto era clamoroso. Nulla di simile era mai accaduto, non solo in Valle Brembana, ma in tutto il territorio bergamasco e tanto meno nel resto dello stato veneto, dove per altro non mancavano i fautori, piu' o meno dichiarati, del nuovo ordine liberal rivoluzionario. Una sfida aperta e deliberata alla sicurezza della Serenissima, lanciata da uno sperduto e insignificante villaggio delle montagne bergamasche. Colto alla sprovvista dall'enormita' della scoperta, il sindaco Bonetti era corso a svegliare il suo collega Bernardo Gervasoni che in quei giorni si trovava convalescente da una grave malattia. Consultatasi tra loro e udito il parere dei consiglieri comunali, che nel frattempo si erano radunati davanti all'albero, i due sindaci ritennero che la cosa migliore da farsi era di lasciare l'albero al suo posto e correre a Bergamo ad avvertire le superiori autorita'. No prima pero' di aver raccolto notizie sui possibili responsabili del misfatto. E una breve indagine consentì di indirizzare i sospetti sui cugini Gio. Domenico e Angelo Gervasoni: in primo luogo l'albero era stato eretto proprio di fronte all'abitazione di quest'ultimo, inoltre i precedenti dei due non lasciava dubbi sulla loro responsabilita'. Guai pero' a cercare di interrogarli, o peggio, arrestarli.

Il loro pessimo carattere e la cattiva reputazione di cui godevano sconsigliavano ogni tentativo in quella direzione, senza dimenticare che si trattava di gente armata e alleata ai peggiori delinquenti della valle. All'incirca queste cose racconto' Martino Bonetti a Nicolo' Corner quella mattina. E appena ebbe terminata l'esposizione dei fatti, il sindaco di Baresi ebbe la certezza di aver fatto bene a correre a Bergamo. La cattura dei due cugini Gervasoni ebbe luogo il 10 Maggio. Nel corso della notte un drappello di guardie e di soldato di cavalleria, al comando del tenente Melchiorre Astini, con l'appoggio di persone del posto mandate dal comune, si porto' a Baresi e prese posizione in un luogo appartato all'ingresso del paese. Fattosi giorno, i due ricercati uscirono dalle loro case e si recarono in chiesa  per assistere alla messa. Cosi' le guardie non ebbero difficolta' a fare irruzione nella parrocchiale e immobilizzare i due che erano disarmati e non avevano nessun compare che potesse difenderli. Portata a termine la cattura, il tenente Astini condusse i suoi uomini nel luogo dove sorgeva l'albero e, di fronte alla popolazione , provvide a farlo abbattere; quindi lo fece ridurre in pezzi e lo diede alle fiamme. I due arrestati vennero rinchiusi nelle carceri cittadine dove vennero processati e condannati in tutta fretta, cosicche' il 31 Maggio il Corner, avendo espletato ogni sua incombenza, era gia' nelle condizioni di farli trasferire a Venezia, assieme a quel che restava del corpo del reato, a disposizione degli inquisitori. Il processo come detto, venne celebrato a Bergamo nei giorni successivi all'arresto dei due imputati. Di fronte alle pesanti accuse formulate a loro carico, i due si difesero in affanno. Gio. Domenico sostenne di essere estraneo alla vicenda, non avendo partecipato all'erezione dell'albero, mentre il cugino Angelo ammise di essere stato lui ad innalzarlo, ma di non avere avuto alcuna finalita' politica, intendendo semplicemente rinverdire la tradizione dell'erezione del "mazo", con la quale desiderava accompagnare i preparativi di matrimonio di un amico. L'usanza del "mazo" consisteva nel piantare a maggio (mas) un tronco d'albero dal pennacchio addobbato davanti alla casa di una ragazza, per significarle che doveva intrattenere rapporti solo con l'innamorato e non con altri giovani. Una vera e propria dichiarazione d'amore di fronte al paese, un piccolo impegno di matrimonio. Usanza che pero' era caduta in disuso e che piu' nessuno ricordava in alta valle. Questo debole tentativo di difesa venne travolto da una serie di testimonianze  prodotte dall'accusa che avvalorarono la tesi della valenza politica e sovversiva del gesto degli imputati. Troppe circostanze infatti convergevano nel dimostrare che i due cugini erano pienamente a conoscenza delle idee rivoluzionarie e del valore simbolico dell'albero delle liberta'. E cosi' furono condannati, pagando per questa leggerezza, frutto forse piu' di vanagloria e spacconeria che di vera convinzione ideologica, le pene per i ben piu' gravi reati commessi in precedenza. In margine a questa vicenda non va' trascurato quanto scrissero gli inquisitori veneti Corner, e' un documento assai istruttivo sulla scarsa considerazione o sul disprezzo di cui godeva il popolo bergamasco presso i governanti veneti. La lettera invita il capitano Corner ad usare ogni diligenza per scongiurare la diffusione di idee erronee e sovversive tra gli idioti abitanti dei villaggi e a togliere di mezzo tutto cio' che avrebbe potuto ingannare l'ignorante villico e turbare la sua tranquillita'. A tale scopo si riteneva assolutamente indispensabile impedire che a Baresi e in altre localita' del territorio si leggessero pubblicamente giornali di qualsiasi natura e si sollecitava ad effettuare gli opportuni controlli affinche' non fossero introdotte pubblicazioni illecite e pericolose, in particolare negli esercizi pubblici.

Il mandriano spergiuro
Questa leggenda viene raccontata ancora oggi in varie versioni, leggermente diverse tra loro, dagli anziani di Oltre il Colle, Serina e Roncobello. Ciascuna di queste località indica anche il luogo preciso che fu teatro della vicenda: per quelli di Oltre il Colle si tratta dei pascoli del monte di Zambla, per i Serinesi il monte Grem e per quelli di Roncobello il lago Branchino. Allo stesso modo, secondo gli abitanti di Oltre il Colle, il mandriano spergiuro, protagonista della leggenda, proveniva da Gorno, mentre a sentire quelli di Serina era di Sorisole e, per gli abitanti di Roncobello si trattava di un certo Valle di Serina. Questa triplice versione di una storia pressoché identica, ne denota la popolarità tra le popolazioni dell’alta Val Serina e della vicina Valsecca. Per non far torto a nessuno, ne viene qui esposta una sintesi che assomma le tre versioni, lasciando volutamente indeterminati il paese e i personaggi. Or dunque, era sorta in quel paese una disputa accanita circa i diritti di possesso di un alpeggio. La maggioranza dei capifamiglia riteneva che tale alpeggio fosse di proprietà comunale e quindi a disposizione di tutti. Non così la pensava un vecchio mandriano, che era forestiero e il cui arrivo in paese, parecchi anni prima, aveva scatenato la discordia, in quanto egli vantava su quel pascolo diritti di esclusiva proprietà. Diritti, osservava, risalenti ai suoi antenati e tramandati in eredità di padre in figlio, fino a lui stesso. Una serie di processi, celebrati davanti al vicario di valle, non erano valsi ad appurare chi fosse il legittimo proprietario, di conseguenza, in mancanza di uno specifico divieto della pubblica autorità e facendosi scudo dei suoi asseriti diritti, il mandriano portava ogni anno regolarmente la sua mandria sull’alpeggio, sordo alle lamentele dei compaesani, i quali dal canto loro non erano ormai più disposti a subire tale situazione, considerandola un vero e proprio sopruso. E così, ogni anno, assieme alla stagione dell’alpeggio si riaccendevano le dispute e non di rado accadeva che qualcuno passasse alle vie di fatto. Allora tra il mandriano prepotente, spalleggiato da figli e parenti e da certi vicini che traevano vantaggio dall’essere dalla sua parte, e qualcuno dei suoi avversari si scatenavano risse tremende, condite con pugni e bastonate.

Una siffatta situazione non poteva più continuare e le autorità, ben consapevoli che presto ci sarebbe scappato il morto e desiderosi di risolvere una volta per tutte la complicata questione, deliberarono di invitare i contendenti ad una solenne cerimonia pubblica di giuramento, durante la quale si sperava che sarebbe finalmente emersa le verità. La cerimonia ebbe luogo una domenica mattina, poche settimane prima dell’avvio della stagione dell’alpeggio, i contendenti, le rispettive famiglie e quasi tutta la popolazione si riunirono attorno alla baita del pascolo della discordia. Assieme a loro giunsero lassù i consoli e i consiglieri del paese, il vicario di valle, in qualità di giudice supremo e i rappresentanti del governo inviati dal podestà di Bergamo, accompagnati da un drappello di soldati col compito di sedare non improbabili tumulti. C’erano poi il parroco del paese e un canonico, mandato dal vescovo allo scopo di attestare la validità del sacro giuramento, infine un notaio, con il compito di redigere il relativo atto formale. Celebrata la messa, le autorità civili e religiose si disposero attorno all’altare e invitarono i contendenti a giurare davanti al crocefisso, dopo averli severamente ammoniti sui gravi castighi civili e religiosi riservati agli spergiuri. Nessuno dei mandriani del paese ebbe però il coraggio di pronunciare la solenne formula attestante il loro diritto di proprietà, infatti non avevano alcuna certezza di tale diritto, non disponendo di prove ufficiali e inconfutabili. Fu poi la volta del vecchio forestiero il quale, tra l’incredulità degli astanti, pronunciò a voce alta e sicura il seguente giuramento: Giuro davanti a Dio che la terra che ho sotto i piedi appartiene a me e alla mia famiglia. Le forze dell’ordine riuscirono a stento a trattenere la folla inferocita che tentava di avventarsi sul vecchio, accusandolo di spergiuro. Ma ormai la questione era chiusa: le autorità civili e religiose sancirono ufficialmente e concordemente che il pascolo conteso doveva essere assegnato definitivamente al vecchio mandriano, il cui giuramento non lasciava adito a dubbi. Così fu, e da quel momento il mandriano poté far pascolare le sue bestie su quel terreno, godendo della protezione della legge. Ma, se all’apparenza, ostentava sicurezza e spavalderia, la sua coscienza era agitata da un sordo rimorso. Infatti il suo giuramento era stata una vera e propria truffa e, se di fronte agli uomini tutto sembrava all’apparenza ineccepibile, dentro di sé egli era consapevole di essersi meritato il castigo di Dio. Castigo che non sarebbe tardato ad arrivare, considerata l’età dello spergiuro. Era infatti accaduto che il giorno del giuramento il mandriano, mal consigliato dalla moglie, era entrato nel suo orto, aveva preso due manciate di quella terra e l’aveva messa nelle sue scarpe, sotto i piedi.

Forte di questa furbata, aveva quindi potuto giurare spavaldamente che la terra che … aveva sotto i piedi era sua! Autorità e avversari erano stati in tal modo ingannati, ma quando il furbo mandriano venne a morire e si presentò davanti al giudizio di Dio, ebbe il castigo che si meritava. E di che natura fosse il castigo lo appresero tutti coloro che negli anni seguenti ebbero la ventura di passare dalle parti dell’alpeggio durante un temporale. Allora potevano vedere l’anima dello spergiuro vagabondare per la montagna in groppa a un cavallo di fuoco che scalpitava sinistramente tra lampi e tuoni in un turbine di vento e grandine. A ogni passaggio il dannato mandriano urlava un ordine lugubre e disperato: “Laghì sta i tèrmegn! La róba di óter la fa póca zuàda!”. Manco a dirlo, più nessuna mandria poteva essere portata su quell’alpeggio perché le mucche, in preda a un’indicibile inquietudine, si rifiutavano di pascolare, emettevano muggiti lamentosi e non davano una goccia di latte. Nemmeno le ripetute benedizioni impartite da vari sacerdoti seppero tener lontana quell’anima dannata, che continuò per anni a seminare il panico tra i montanari. E anche oggi può capitare, in certe notti di tempesta, di sentire su per la montagna lamenti umani mescolati al brontolio dei tuoni mentre guizzi di luce, simili a lampi, corrono qua e là sopra la distesa dei pascoli.

Tratto dal Libro di Tarcisio Bottani e Wanda Taufer: Racconti Popolari Brembani