Storie antiche di Santa Brigida

Il Serpente della Corna Rossa
Una certa analogia con il drago di Santa Brigida presenta il serpente volante della Corna Rossa, per via della boccia d’oro che teneva in bocca e che emetteva una luce così vivida da essere confusa con una stella. Il serpente aveva eletto la Corna Rossa, l’altura che sorge alle spalle di Zogno, verso Carubbo, a propria dimora. Qui passava le giornate al riparo di una grotta, dalla quale usciva ogni tanto, al calar del sole, per compiere lunghe peregrinazioni notturne. Calato dalla montagna a velocità folle, scorrazzava su e giù per la piana di Zogno e sembrava divertirsi un mondo, specie quando si spingeva in acrobatiche evoluzioni attorno al campanile della parrocchiale. Gli Zognesi ne seguivano con apprensione le ardite picchiate da un punto all’altro della vallata, impotenti a fermare l’impeto di quella inquietante creatura, ma ammirati della luce sfavillante che proveniva dalla boccia, così intensa da potersi paragonare ad una cometa. Nessuno osava stare all’aperto, preferendo di gran lunga seguire il singolare spettacolo al riparo delle mura di casa, limitandosi a sbirciare dalle finestre e dagli abbaini del tetto. Allo scoccare della mezzanotte il serpente, forse disturbato dai rintocchi del campanone, prendeva ad emettere lunghi e ripetuti sibili che squarciavano il silenzio della vallata, terrorizzando ancor più la popolazione e dopo aver tracciato un ultimo cerchio di luce attorno al paese, si dirigeva come una saetta verso il Canto Alto, dove rimaneva per il resto della notte svolazzando qua e là sulle alture prospicienti la pianura, ben visibile perfino dalla città. Finalmente, sul far dell’alba, stanco di evoluzioni, si decideva a tornare nella tana, non prima però di aver placato l’arsura procuratagli da tanto girovagare. Allora scendeva nella Valle del Boér, ai piedi della Corna Rossa e, deposta sopra un sasso la boccia d’oro, si immergeva dove il torrente allargandosi, formava un limpido specchio d’acqua e vi rimaneva a lungo, guazzando e bevendo beatamente. Poi spiccava il volo verso la Corna Rossa, dove si rintanava in attesa della prossima scorribanda. Bisogna dire che, a parte la paura, quell’essere fuori dell’ordinario non aveva mai creato seri problemi alla gente di Zogno che si era dovuta adattare alla sua presenza, come a qualsiasi altro malanno che periodicamente colpiva la comunità. Manco a dirlo, la boccia d’oro era l’argomento principale delle discussioni e c’era chi attribuiva a quell’oggetto, oltre all’indiscutibile valore venale, eccezionali proprietà magiche e terapeutiche, che avrebbero potuto giovare agli interessi del paese. Logico, quindi, che qualcuno progettasse di impadronirsene, sperando di sorprendere il serpente in un attimo di distrazione quando andava a fare il bagno. Fu così che un bulletto del paese, per dar prova del suo coraggio e nella speranza di farne strumento per migliorare le sue non proprio floride risorse, decise di tentare l’impresa. A notte inoltrata si appostò nella Valle del Boér, proprio ai margini del laghetto dove il serpente sarebbe arrivato per la consueta abbeverata. E infatti, verso l’alba, il serpente arrivò, depose la boccia sul solito sasso e prese a guazzare nell’acqua. Il giovanotto si avvicinò quatto quatto alla boccia e fece per prenderla, ma non appena l’ebbe toccata, si sentì pervadere da un intenso calore, divenne tutto rosso e cominciò ad irrigidirsi, poi restò lì, immobile, come pietrificato. Fu così che lo trovarono il giorno dopo i parenti e gli amici che, non avendolo visto rientrare, erano andati a cercarlo. Per fortuna si trattò solo di una paralisi passeggera, dalla quale il malcapitato giovane venne liberato dopo parecchie preghiere e altrettante benedizioni impartitegli dal parroco di Zogno. Ma la vicenda del serpente volante non finì lì: per tenerlo alla larga venne posta sul Canto Alto una grande croce e sulla sommità del campanile venne collocata la statua di San Lorenzo, recante in mano la graticola, simbolo del suo martirio, e un fascio di verghe di salice. I due provvedimenti sortirono l’effetto sperato, infatti il serpente cominciò a diradare le sue scorribande notturne e poi, forse perché vecchio e ammalato, finì per lo scomparire del tutto… Ma non senza lasciare uno sgradito ricordo del suo passaggio: il torrente della Valle del Boér ebbe per molti anni le acque inquinate e infestate di vipere, rospi, scorpioni e salamandre, al punto che più nessun contadino osava portarvi le sue bestie all’abbeverata, per evitare che ne rimanessero avvelenate. Solo dopo molti anni fu possibile bonificare la valle, e adesso, del serpente volante con la boccia d’oro e della sua vendetta ecologica, resta a malapena il ricordo.

Il Serpente della Corna Rossa
Una certa analogia con il drago di Santa Brigida presenta il serpente volante della Corna Rossa, per via della boccia d’oro che teneva in bocca e che emetteva una luce così vivida da essere confusa con una stella. Il serpente aveva eletto la Corna Rossa, l’altura che sorge alle spalle di Zogno, verso Carubbo, a propria dimora. Qui passava le giornate al riparo di una grotta, dalla quale usciva ogni tanto, al calar del sole, per compiere lunghe peregrinazioni notturne. Calato dalla montagna a velocità folle, scorrazzava su e giù per la piana di Zogno e sembrava divertirsi un mondo, specie quando si spingeva in acrobatiche evoluzioni attorno al campanile della parrocchiale. Gli Zognesi ne seguivano con apprensione le ardite picchiate da un punto all’altro della vallata, impotenti a fermare l’impeto di quella inquietante creatura, ma ammirati della luce sfavillante che proveniva dalla boccia, così intensa da potersi paragonare ad una cometa. Nessuno osava stare all’aperto, preferendo di gran lunga seguire il singolare spettacolo al riparo delle mura di casa, limitandosi a sbirciare dalle finestre e dagli abbaini del tetto. Allo scoccare della mezzanotte il serpente, forse disturbato dai rintocchi del campanone, prendeva ad emettere lunghi e ripetuti sibili che squarciavano il silenzio della vallata, terrorizzando ancor più la popolazione e dopo aver tracciato un ultimo cerchio di luce attorno al paese, si dirigeva come una saetta verso il Canto Alto, dove rimaneva per il resto della notte svolazzando qua e là sulle alture prospicienti la pianura, ben visibile perfino dalla città. Finalmente, sul far dell’alba, stanco di evoluzioni, si decideva a tornare nella tana, non prima però di aver placato l’arsura procuratagli da tanto girovagare. Allora scendeva nella Valle del Boér, ai piedi della Corna Rossa e, deposta sopra un sasso la boccia d’oro, si immergeva dove il torrente allargandosi, formava un limpido specchio d’acqua e vi rimaneva a lungo, guazzando e bevendo beatamente. Poi spiccava il volo verso la Corna Rossa, dove si rintanava in attesa della prossima scorribanda. Bisogna dire che, a parte la paura, quell’essere fuori dell’ordinario non aveva mai creato seri problemi alla gente di Zogno che si era dovuta adattare alla sua presenza, come a qualsiasi altro malanno che periodicamente colpiva la comunità. Manco a dirlo, la boccia d’oro era l’argomento principale delle discussioni e c’era chi attribuiva a quell’oggetto, oltre all’indiscutibile valore venale, eccezionali proprietà magiche e terapeutiche, che avrebbero potuto giovare agli interessi del paese. Logico, quindi, che qualcuno progettasse di impadronirsene, sperando di sorprendere il serpente in un attimo di distrazione quando andava a fare il bagno. Fu così che un bulletto del paese, per dar prova del suo coraggio e nella speranza di farne strumento per migliorare le sue non proprio floride risorse, decise di tentare l’impresa. A notte inoltrata si appostò nella Valle del Boér, proprio ai margini del laghetto dove il serpente sarebbe arrivato per la consueta abbeverata. E infatti, verso l’alba, il serpente arrivò, depose la boccia sul solito sasso e prese a guazzare nell’acqua. Il giovanotto si avvicinò quatto quatto alla boccia e fece per prenderla, ma non appena l’ebbe toccata, si sentì pervadere da un intenso calore, divenne tutto rosso e cominciò ad irrigidirsi, poi restò lì, immobile, come pietrificato. Fu così che lo trovarono il giorno dopo i parenti e gli amici che, non avendolo visto rientrare, erano andati a cercarlo. Per fortuna si trattò solo di una paralisi passeggera, dalla quale il malcapitato giovane venne liberato dopo parecchie preghiere e altrettante benedizioni impartitegli dal parroco di Zogno. Ma la vicenda del serpente volante non finì lì: per tenerlo alla larga venne posta sul Canto Alto una grande croce e sulla sommità del campanile venne collocata la statua di San Lorenzo, recante in mano la graticola, simbolo del suo martirio, e un fascio di verghe di salice. I due provvedimenti sortirono l’effetto sperato, infatti il serpente cominciò a diradare le sue scorribande notturne e poi, forse perché vecchio e ammalato, finì per lo scomparire del tutto… Ma non senza lasciare uno sgradito ricordo del suo passaggio: il torrente della Valle del Boér ebbe per molti anni le acque inquinate e infestate di vipere, rospi, scorpioni e salamandre, al punto che più nessun contadino osava portarvi le sue bestie all’abbeverata, per evitare che ne rimanessero avvelenate. Solo dopo molti anni fu possibile bonificare la valle, e adesso, del serpente volante con la boccia d’oro e della sua vendetta ecologica, resta a malapena il ricordo.

Il Drago di Santa Brigida
A pochi metri dalla cima dell’intricata distesa del Filone, sulla montagna dirimpetto a Santa Brigida, si apre ancora oggi un’ampia grotta che si inoltra per diversi metri nella roccia viva. Gli abitanti del paese la chiamano Büsa ed affermano che una volta era il rifugio di uno strano animale, una specie di mostro, vagamente somigliante a un coccodrillo, ma con l’aggiunta di altre caratteristiche proprie dei pipistrelli. Aveva un dorso gibboso e tutto coperto di squame giallastre, due enormi ali di pipistrello si agitavano cupe movendo l’aria come pale da mulino, quattro zampe corte e tozze terminavano con poderosi artigli atti a ghermire ed immobilizzare anche le prede più grosse e resistenti, la lunga coda, mobile come uno scudiscio, terminava in una specie di unghia, nera e tagliente, dalla forma del tutto simile alle chele di uno scorpione. La testa, larga e piatta, era sormontata da una lunga cresta fatta di scaglie ossee e da piume di color turchino. L’enorme bocca era munita di una fila di denti lunghi e acuminati; nel mezzo della lingua, rossa e biforcuta, era posto un diamante grosso come una mela, che brillava di una luce sfavillante, così intensa da accecare chiunque avesse avuto la sventura di posarvi lo sguardo anche solo per un attimo. Ogni mattina, alle prime luci dell’alba, quell’essere mostruoso usciva dal suo nascondiglio, emettendo acutissimi sibili e lasciandosi dietro una luce rossastra che illuminava la grande distesa di prati alla base della montagna. Alla vista del mostro, i montanari che vivevano nelle contrade e nelle baite dei dintorni erano presi da paura e sgomento: i bambini correvano in casa e le donne recitavano in fretta alcune preghiere, mentre gli uomini più coraggiosi imbracciavano il vecchio fucile, risoluti a servirsene semmai ce ne fosse stato bisogno, ma dubbiosi circa l’effettiva efficacia di quell’arma contro un tal mostro. Anche gli animali erano assaliti dall’inquietudine: i cani, in preda ad un tremito incontrollato, emettevano lugubri guaiti e cercavano rifugio sotto il tavolo, le mucche scrollavano ripetutamente il collo facendo risuonare i loro striduli campanacci e riempivano la vallata di muggiti disperati, le pecore belavano lamentosamente e si stringevano in un cerchio compatto come per cercare protezione. Anche il bosco sembrava patire questa presenza angosciante: le foglie degli alberi perdevano improvvisamente il loro fulgore estivo, ingiallivano e cadevano. “È arrivato anche quest’anno, puntuale come ogni estate, per rovinarci l’esistenza” esclamavano rassegnati i vecchi contadini alla vista del mostro che, richiamato dei primi calori estivi, si era risvegliato dal suo letargo invernale ed era uscito dalla caverna, librandosi alto nel cielo, mentre si diffondevano per tutta la vallata i rintocchi delle campane dell’antica chiesa di Santa Brigida, annuncianti la presenza del drago, con un’insistenza lamentosa che accresceva l’angoscia di tutti. Il mostro, incurante dei problemi che il suo arrivo aveva scatenato tra la gente della Valle Averara, iniziava la sua caccia famelica planando sopra i boschi della Pugna, presso Cassiglio, e proseguiva verso Ornica, risalendo la Val d’Inferno e puntando poi verso i piano dell’Avaro, i laghi di Ponteranica, le malghe d’Ancogno e della Ca’ San Marco, per concludere il suo volo sfrenato sopra le verdi distese d’abeti delle Torcole e del Torracchio che al suo passaggio rimanevano segnate da una striscia giallastra come se fossero state colpite da una vampa di fuoco. Catturata la preda, un capriolo, un camoscio o, più spesso un vitello o un agnello, il drago se la portava nella tana per divorarsela in pace tra grugniti di soddisfazione alternati allo stridore delle zanne che stritolavano le carcasse dei malcapitati animali.

Per qualche settimana il drago diventava il padrone incontrastato dell’alta Valle Brembana e come in preda ad una smania incontrollata di libertà vagava tutto il giorno da una montagna all’altra, era allegro, sembrava felice… Ma per poco: l’avanzare dell’estate e l’aumento della temperatura creavano al drago un prurito insopportabile che lo portava alla disperazione. In preda ad vero e proprio parossismo, faceva ampie evoluzioni nel cielo, tra lamenti e fischi acuti, agitando le ali e grattandosi freneticamente con gli artigli e provocando il distacco delle squame giallastre. La pioggia dorata precipitava sulla terra e ricopriva l’erba dei prati e le foglie degli alberi che subito seccavano. Sempre volando qua e là, cercava un po’ di refrigerio immergendosi nei laghi di Ponteranica, dove finalmente poteva alleviare il suo tormento, sguazzando tra le acque che si scaldavano e prendevano uno strano colore ambrato. Finita la cura, se ne tornava verso il suo rifugio del Filone. Così passava l’intera estate, poi finalmente, con i primi freddi dell’autunno, ripiombava in letargo e non si faceva più vedere. Fino all’anno successivo. A dire il vero, però, questo animale orribile a vedersi, non era cattivo, infatti si limitava a cacciare gli animali, ed anche le persone, solo per calmare il suo enorme appetito. I disagi maggiori toccavano ai mandriani e ai pastori a cui il mostro portava via con incredibile frequenza gli animali, per divorarli. Senza contare che anche le persone se non stavano bene attente rischiavano di fare la stessa fine. Il mostro era motivo di disagio anche quando era assetato, infatti le sue enormi bevute causavano il prosciugamento delle pozze alpine destinate all’abbeverata delle mandrie e quando beveva dai torrenti, li prosciugava per giornate intere, provocando il blocco dei mulini e degli altri impianti ad acqua che sorgevano lungo la valle. Per cercare di porre fine a questo flagello, ma soprattutto nel desiderio di impadronirsi del favoloso diamante, furono diversi i tentativi messi in atto per eliminare il drago. Qualche animoso cacciatore di Santa Brigida e dei paesi vicini tentò di catturarlo, collocando all’imboccatura della caverna un grosso laccio fatto con una fune d’acciaio, di quelle che usano i boscaioli per trasportare il legname. La speranza era che il mostro, al suo risveglio dopo il lungo letargo, finisse impigliato nel laccio e non potesse più liberarsi. Vana illusione: la fune veniva puntualmente fatta a pezzi. Non mancarono i protagonisti di paurose avventure. Brutta storia quella capitata a un certo Bulgher, che abitava nella cascina dei Pichècc, nelle vicinanze della Pugna, e che aveva addirittura progettato di rubare il grosso diamante del mostro, il quale ogni sera lo toglieva dalla bocca e lo deponeva nella cavità di un faggio secolare che sorgeva presso l’imboccatura della tana. Il Bulgher si appostò nei paraggi e aspettò con pazienza il drago, il quale prima di ritirarsi nella grotta, si avvicinò all’albero e vi nascose il diamante.Ma poi accadde l’imprevisto: il drago, forse avvertendo la presenza di un estraneo, invece di andare a dormire, tornò sui suoi passi e si mise ad agitarsi attorno alla grotta, grugnendo e sradicando alberi con l’impeto della sua forza. Il Bulgher, che aveva preso in mano lo splendido diamante e lo stava ammirando estasiato dalla luce che emetteva, fece appena in tempo a rintanarsi nella cavità del faggio, abbandonando per terra il prezioso bottino. Per sua fortuna il mostro, ritrovato il diamante, se ne tornò nella grotta, senza notare il malcapitato che rimase nascosto nell’albero per tutta la notte, in preda a un tremore indicibile. Ne uscì solo la mattina seguente, quando il drago se ne era ormai andato, e si accorse, con amaro stupore, che per lo spavento i suoi capelli erano diventati bianchi!

Peggior sorte toccò a tale Ventura, che si credeva uomo forte e coraggioso e cacciatore infallibile, tanto da progettare di uccidere la bestia col suo trombone. Raggiunto il bosco della Pugna, si costruì un ricovero di pietre e vi si nascose in attesa dell’arrivo del mostro. E il mostro arrivò, mentre sulla zona imperversava un furioso temporale. Tra lampi abbaglianti e fragorosi tuoni, il Ventura se lo vide comparire davanti improvvisamente. Colto di sorpresa, cercò di far fuoco contro l’animale, ma l’arma gli scoppiò tra le mani. Allora il mostro gli si avventò contro con furore inaudito e lo sbranò con pochi bocconi, lasciando per terra solo la testa, che fu in seguito rinvenuta con gli occhi sbarrati e la bocca digrignata e fu seppellita nel cimitero di Santa Brigida. Quella notte anche il mostro sparì e di lui si persero le tracce. Si racconta però che per molti anni i mandriani che si recavano sui pascoli della Pugna udivano nella notte gli spaventosi sibili della belva e i lamenti strazianti del cacciatore che aveva pagato cara la sua temerarietà. Si decise allora di far salire lassù il parroco affinché benedicesse il luogo della tragedia, ma gli strepiti e i lamenti non cessarono mai del tutto e ancora oggi qualcuno assicura chi si avventura nella zona in certe notti di luna piena sente ancora distintamente questi suoni, che sembrano provenire da un mondo lontano.

Tratto dal Libro di Tarcisio Bottani e Wanda Taufer: Racconti Popolari Brembani

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